Con la sentenza n. 150/2020, depositata lo scorso 16 luglio, la Corte Costituzionale, sollecitata dalle ordinanze di remissione dei Tribunale di Roma e Bari, è tornata ad occuparsi del meccanismo delle “tutele crescenti” di cui al D.Lgs.23/2015 (cd. Jobs Act).
Già nel 2018 (sentenza n. 194), la Corte aveva dichiarato l’incostituzionalità del primo comma dell’art. 3 del D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui prevedeva il criterio della “anzianità aziendale” quale unico parametro di calcolo dell’indennità risarcitoria in caso di illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo o per giusta causa.
In questa occasione, invece, la Corte si è occupata dell’art. 4 del D.Lgs. n. 23/2015 in materia di licenziamento per vizi formali o procedurali: anche tale norma stabiliva che l’indennità fosse commisurata esclusivamente all’anzianità di servizio del lavoratore.
In particolare, per i dipendenti di datori di lavoro che integrano i limiti dimensionali di cui ai commi 8 e 9 dell’art. 18 della legge n. 300/1970, l’indennità ammontava ad una mensilità dell’ultima retribuzione per ciascun anno di anzianità; per le aziende minori, l’ importo era addirittura dimezzato.
Orbene, in piena continuità con la sentenza n. 194/2018, la Corte Costituzionale ha evidenziato come tale meccanismo risarcitorio, basato unicamente sul criterio della anzianità aziendale, sia contrario ai principi di uguaglianza e di ragionevolezza tutelati dalla nostra Costituzione.
Con particolare riferimento all’articolo 3 della Costituzione, la Corte ha osservato che la disciplina in esame, nell’appiattire «la valutazione del giudice sulla verifica della sola anzianità di servizio», determinava «un’indebita omologazione di situazioni che, nell’esperienza concreta, sono profondamente diverse» e si poneva dunque in contrasto con il principio di eguaglianza.
Invero, posto che le norme procedurali in materia di licenziamento sono previste proprio a garanzia del diritto di difesa del lavoratore, è evidente che la normativa in questione -avendo scarsissima efficacia dissuasiva nei confronti dei datori di lavoro- ledeva e discriminava in special modo i lavoratori con minore anzianità aziendale.
Ma non solo.
La rigida predeterminazione dell’indennità, sulla base della sola anzianità di servizio, violava anche gli articoli 4, primo comma, e 35, primo comma, della Costituzione, che tutelano la giusta procedura di licenziamento, diretta a salvaguardare pienamente la dignità della persona del lavoratore.
Come già avvenuto con la sentenza “gemella” del 2018, la Corte Costituzionale ha restituito alla Magistratura quel potere discrezionale che il “Jobs act” gli aveva sottratto, consentendogli di utilizzare, oltre all’anzianità di servizio, ulteriori criteri di determinazione dell’indennità quali la gravità della violazione, il numero degli occupati, le dimensioni dell’azienda, il contesto economico, le condizioni ed il comportamento delle parti.
In buona sostanza, gli stessi criteri previsti dalla normativa previgente (L.604/1966).
La Corte ha, infine, invitato il legislatore a «ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari».
Non rimane, pertanto, che attendere l’auspicato intervento del legislatore nel condivisibile solco interpretativo tracciato dalla Corte.